Occhi neri con un “perchè?”

Continua l’esperienza di vivere questi giorni di conflitto nella Cisgiordania, o West bank, come viene chiamata in gran parte del mondo. Muoversi attraverso i checkpoint, tra la gente di Betlemme, mentre lentamente la Palestina ti cambia dentro…
muro

A Betlemme i turisti scarseggiano ed è possibile, ad ogni ora, arrivare alla grotta della Natività, entrare e pregare indisturbati. C’è tempo. Aver tempo per il silenzio interiore è un’esperienza che arricchisce e parla più di ogni altra cosa. La gente mi piace, ogni giorno sempre di più: le persone ti guardano con quegli occhi scuri che contengono un “perché?” che mi tocca fino nel profondo dell’anima.

Ieri in autobus, da Betlemme a Gerusalemme, ho sperimentato qualcosa di quel “perché” che mi sembra di vedere ovunque. Una signora anziana ed ammalata ad un occhio è stata oggetto di un breve ma intenso interrogatorio sul perché volesse passare il muro – che divide la gente, i cuori e ti fa male solo a vederlo – per entrare in Gerusalemme. Quel muro alto, con scritte, dove il Papa ha appoggiato le sue mani per pregare. Ho sofferto con lei per il modo con cui le venivano fatte le domande da una ragazza con un M16 sulle spalle. Ho pregato e pianto dentro. Per entrambi.

Oggi, andando a comprare il pane, mi sono fatto spiegare da un amico come dire in arabo alcune frasi semplici. Il ragazzo era felice della breve conversazione e ci siamo dati la mano con calore. Un dono di questo periodo è cercare di “sentire” cosa provano questi miei fratelli. Per le strade la vita scorre normale. Raramente passa qualche macchina con artoparlanti per raccogliere acqua ed aiuti per Gaza o con bandiere… Alcuni ragazzi e ragazze fanno tutto questo sotto il sole.

Si vendono anche magliette nere con la scritta in rosso: “Siamo tutti Gaza!”. Andiamo su per la collina, tra le case dei rifugiati: la gente ci guarda. I bimbi hanno anche un po’ paura di noi. Poi iniziamo a salutare discretamente un bimbo un po’ spaventato nel vedere le nostre facce. Il papà, contento ma discreto, risponde con poche parole sussurrate. Ripeto dentro di me: “Perché? Perché quel muro? Perché non c’è l’acqua per i palestinesi? Perché c’è questa specie di prigione?”

E ringrazio i miei amici che mi hanno dato modo di sperimentare un millesimo di cosa sia vivere nei territori e passare i check point ogni giorno, di razionare l’acqua, di cosa significhi farsi la doccia conservando l’acqua. Ed io, noi, stiamo già bene… Io posso ancora muovermi ed un giorno, “se Dio vorrà”, come si dice qui, dovrò anche partire per l’Europa.

Certo che la Palestina ti cambia dentro, perchè ti fa male. È la prima volta che vivo come in una prigione per 7 giorni e mi accorgo che non sono più quello di prima. Io resterò qui: sento che resterò. Come sono restato nel nord ovest della Thailandia, in mezzo ai profughi Karen, e come sono rimasto tra le famiglie cambogiane al sud di Bangkok.

Se sono un uomo, un uomo vero, tutto questo dolore non può essermi indifferente o passarmi sulla pella come fosse un film. E non lo è. Finché avrò vita voglio contribuire a costruire un mondo nuovo ed aiutare anche questa gente. Anche quel razzo, che alle 7,55 ha sorvolato le nostre teste, ed è caduto sulle case, vicino a delle nostre amiche, un giorno l’amore lo fermerà. Non partirà mai piu’.

La vita continua a Betlemme, giorno dopo giorno; gli occhi della gente sono sempre più profondi e scuri. Vorrei e chiedo che la mia vita possa servire per dare una risposta, seppur piccola, a quel “perché” scritto negli occhi di questa gente. Perché un giorno il mondo nuovo sarà una realtà.

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